La Lettura Tarologica è un viaggio verso la comprensione di sé. Un Regalo di saggezza e consapevolezza.

Halloween e Don Giovanni. Luci e ombre nei riti di passaggio.

Il Regno delle Ombre tra il mito e l’Inconscio collettivo in un percorso simbolico che si apre con la celebrazione del Capodanno celtico, Shamain, e approda al mito del seduttore impenitente celebrato dal genio di Mozart: il Don Giovanni.

Cercando di inquadrare il mito all’interno della simbologia dei Tarocchi, ho voluto soffermarmi proprio su questo personaggio innanzitutto perché Don Giovanni è una figura archetipica e, in quanto tale, possiamo associarla al mondo della Tarologia. In secondo luogo perché in questi giorni e, più precisamente il 31 Ottobre, si celebra Halloween e, per tutta una serie di riflessioni che qui vorrei fare, possiamo intravedere come il mito del seduttore sia in realtà intrinsecamente connesso a quello di questa ricorrenza del capodanno celtico appunto. Contrariamente a questo si pensi, è l’Irlanda la patria originaria di Halloween, anche se generalmente viene conosciuta come una festa di tradizione americana.

La leggenda narra che, tanti e tanti anni fa, viveva in Irlanda un vecchio fabbro di nome Jack, ubriacone e taccagno, e che costui, la notte di Halloween, aveva incontrato per caso in un pub il Diavolo, venuto per reclamare la sua anima. Il vecchio stava per cadere nelle mani di Satana, quando, con uno stratagemma, riuscì ad imbrogliarlo facendogli credere che gli avrebbe dato la sua anima in cambio, però, di un’ultima bevuta. Il Diavolo, così, si trasformò in una monetina da sei pence per pagare l’oste e Jack fu abbastanza veloce da riuscire ad intascarsela. Poiché, poi, possedeva anche una croce d’argento, il Diavolo non riuscì più a tornare alla sua forma originaria. Jack, allora, stipulò un nuovo patto col Diavolo: lo avrebbe lasciato andare purché questi, per almeno 10 anni, non fosse tornato a reclamare la sua anima. Satana accettò.

Dieci anni dopo, Jack e il Diavolo si incontrarono di nuovo e Jack, sempre con uno stratagemma, riuscì a sottrarsi al potere del Principe delle Tenebre e a fargli promettere che non lo avrebbe cercato mai più. Il Diavolo, che si trovava in una situazione difficile, non poté far altro che accettare.

Quando Jack morì, a causa della sua vita dissoluta, non fu ammesso al Regno dei Cieli e fu costretto a bussare alle Porte dell’Inferno; il Diavolo, però, che aveva promesso che non lo avrebbe cercato, lo rispedì indietro tirandogli addosso un tizzone infernale ardente. Jack se ne servì per ritrovare la strada giusta e, affinché non si spegnesse col vento, lo mise sotto la rapa che stava mangiando.

Si dice che da allora Jack vaghi con il suo lumino in attesa del giorno del Giudizio (da qui il nome JACK O’ LANTERN, Jack e la sua Lanterna) e sia il simbolo delle anime dannate ed errabonde.

Quando gli Irlandesi, in seguito alla carestia del 1845, abbandonarono il loro Paese e si diressero in America, portarono con sé questa leggenda e, poiché le rape non sono in America così diffuse come in Irlanda, le sostituirono con le più comuni zucche.

Da allora, la zucca intagliata con la faccia del vecchio fabbro e il lumino all’interno, è il simbolo più famoso di Halloween.

Tuttavia, le sue origini antichissime affondano nel più remoto passato delle tradizioni europee: viene fatta risalire a quando le popolazioni tribali usavano dividere l’anno in due parti in base alla transumanza del bestiame.

Nel periodo fra ottobre e novembre, preparandosi la terra all’inverno, era necessario ricoverare il bestiame in luogo chiuso per garantirgli la sopravvivenza alla stagione fredda: è questo il periodo di Halloween. 

In Europa la ricorrenza si diffuse con i Celti. Questo popolo festeggiava la fine dell’estate con Samhain, il loro capodanno.

In gaelico Samhain significa infatti “fine dell’estate”

A livello metaforico, Samhain rappresenta il tempo del ritiro, del raccoglimento interiore. I giorni si fanno più brevi, le notti più lunghe, il sole muore apparentemente, ma noi sappiamo che tornerà a crescere, con il solstizio d’inverno. Morte e rinascita risultano dunque profondamente legate, come ben sapevano gli antichi, in un ciclo continuo. E’ questo il momento ideale per distaccarsi dalla mondanità e guardare dentro di noi, confrontandoci con la nostra interiorità. Nel periodo che va da Samhain al solstizio d’inverno, l’ombra interiore ci chiama e ci chiede di essere affrontata, guardata, riconosciuta ed integrata. Parlando di ombra interiore, di distacco, di cambiamento, di introspezione, non possiamo non pensare alla simbologia dell’Arcano XIII, l’Arcano senza nome. Quando visualizziamo l’Arcano XIII immediatamente pensiamo a qualcosa di negativo, di doloroso, un passaggio difficile da sopportare e da accettare. Ma dobbiamo tener presente che questo archetipo non in realtà lo associamo a quelle parti di noi che ancora non conosciamo, che sono perciò nascoste, in ombra, ma richiedono di essere riconosciute, per permetterci di evolvere. Si tratta di un momento importante, che ci permette di conoscerci in maniera più profonda, di riposarci e rinnovarci, in attesa di una nuova primavera.

E’ la notte del “lasciar andare”. L’estate cede il posto all’autunno, i campi sono messi a riposo dopo il raccolto. È la notte simbolo di un rinnovamento interiore, quindi un cambiamento reale dentro di noi.

Nella dimensione circolare-ciclica del tempo, caratteristica della cultura celtica, il tempo di Samhain è qualcosa di distante dalla dimensione temporale stessa. E’ il vecchio che lascia il posto al nuovo, è un rito di passaggio, un bardo, si direbbe nella tradizione buddista. Eppure il nuovo non è ancora iniziato, ha solo posto un seme sotto terra, nella terra fredda e nella bruma invernale. Ma questo seme crescerà e porterà i suoi frutti, al tempo giusta della brezza primaverile. Nel tempo di Samhuin il limen che divide i vivi dai morti si assottiglia ed i vivi possono accedervi. La morte è al centro della celebrazione, come lo è, del resto, per noi, la commemorazione dei defunti che avviene un giorno dopo. E questo è assolutamente in sintonia con ciò che sta avvenendo in natura: durante la stagione invernale la vita si mette in pausa, gli animali vanno in letargo, sembra che tutto si fermi, mentre in realtà si sta rinnovando, ma sottoterra, dove tradizionalmente, tra l’altro, riposano i morti. Da qui è comprensibile l’accostamento dello Samhain al culto dei morti e, conseguentemente, all’Arcano XIII che si manifesta in tutta la sua simbologia e i suoi significati relativi: il doloroso taglio, il cambiamento radicale, la paura di doverlo affrontare, le rigidità e le spigolature, la sofferenza, in una parola è il passaggio alla cosiddetta Nigredo che in Alchimia corrisponde a quello stato che rappresenta la prima tappa del viaggio iniziatico dell’essere umano. E’ il momento della discesa nel mondo delle Ombre, l’Inferno interiore, la cosiddetta Opera al nero. In questa fase ci si sente sconnessi e separati, sovrastati dal caos e dalla mancanza di visione e fiducia. Paura e angoscia hanno il sopravvento. Sofferenza, dubbi, indecisioni, insonnia, forme depressive e incubi possono prendere il sopravvento. E’ il segno dell’energia trasmessa dall’ Arcano XIII. E’ la discesa nel mondo degli inferi, ma

Non ci può essere rinascita senza una notte oscura dell’anima, senza un totale annientamento di tutto ciò che hai pensato e creduto di essere 

(Hazrat Inayat Khan)

È il tempo in cui la personalità scende nel mondo degli abissi: emozionalmente, mentalmente, fisicamente. Si entra in contatto con i propri demoni interiori, con tutte le ombre che risiedono nel sottosuolo della superficie illusoria che ci siamo creati come scudo e corazza a tutela della nostra personalità. E’ ciò che nella mistica cristiana viene anche denominata “la buia notte dell’anima”. E’ il momento in cui l’essere umano, in tutta la sua fragilità, disperazione, solitudine e debolezza ha veramente la possibilità di avvicinarsi a Dio e alla sua chiamata.

Si è così pronti per l’oscurità, per le tenebre della stagione invernale.

È questo anche il momento in cui i Celti preparavano fuori dalla casa cibo e sedie per onorare gli antenati morti: si stava tutti insieme attorno i falò a raccontare storie e tutti gli altri focolari domestici erano spenti, mentre i druidi scrivono messaggi per i defunti e li affidano al fuoco. Quando il mattino giungeva, i Druidi portavano le ceneri ardenti del fuoco presso ogni famiglia che provvedeva a riaccendere il focolare domestico.

Cosa significa, a livello interiore, archetipico, simbolico, tutto questo per noi? Significa rientrare in contatto con i simboli antichi di queste tradizioni, che fanno parte dell’inconscio collettivo: per noi un’occasione per ritualizzare le paure che ci angosciano. Mentre un tempo, nelle società antiche, la paura veniva esorcizzata mettendola “in scena”, ad esempio, oppure nelle feste durante le celebrazioni che erano veri e propri riti di passaggio. Oppure attraverso le danze e i sacrifici. Oggi la paura viene, invece, rimossa, reclusa dentro un mondo inaccessibile che abbiamo il terrore di scandagliare. Comprendiamo cosi l’importanza di un atto che evochi questi riti o li contempli, mediante, ad esempio, l’osservazione di un’Icona dei Tarocchi o una lettura degli Archetipi. La lettura stessa diventa un rito di passaggio: uno sguardo al limen della coscienza, a quell’ “anello che non tiene” di montaliana memoria  che ci faccia accedere al mondo della “soglia”, dove attingiamo a ciò che abbiamo sepolto, con gli strumenti della nostra struttura interiore .

“Samhain, capodanno celtico, è passaggio, soglia, conclusione e inizio. E’ conclusa la stagione del verde e inizia la vita del seme, il suo tempo nella terra prima della sua futura vita di pianta. Ed è l’inizio dell’attesa, del tempo interiore della preparazione, del buio. Il tempo in cui i semi dimorano nella terra quieta. E’ il buio da cui tutto ha inizio, il silenzio da cui sorgerà la prima vibrazione, quel vuoto iniziale che deve essere, perchè possa compiersi la nascita. Tempo prezioso e necessario. Tempo di riposo e di ascolto silenzioso. Soglia di questo passaggio, del limitare tra vita, morte e vita, Samhain è porta aperta fra le dimensioni del tempo e delle esistenze. Custode di questa soglia è Ecate, antica dea che ne detiene le chiavi”.

Nella danza della vita, Samhain è per noi il tempo del ritiro, dell’interiorità, l’occasione di andare nelle profondità del nostro essere. Per farlo, abbiamo bisogno di spogliarci di ciò che è esteriore, di lasciar andare quegli attaccamenti e aspetti di noi che non appartengono alla nostra essenza. E’ l’inizio del tempo in cui stiamo con noi stessi, per ritrovare il nostro nucleo prima di riaffacciarci di nuovo al mondo.

E qui bisogna stare attenti a non cadere nell’eterno equivoco dell’Ombra intesa come fattore negativo, da sopprimere, rimuovere. Non c’è vita senza morte, non c’è luce senza Ombra, non c’è Spirito senza materia, non c’è felicità senza dolore, non c’è positivo senza negativo e via dicendo. Quindi la polarità è l’essenza della nostra vita e così l’Ombra personale di ognuno di noi è parte essenziale della sua personalità. Siamo creature duali e perché viviamo nel mondo fisico e, in noi, non può esistere nulla di creativo, fattivo, spirituale e produttivo se non è supportato dalla sua parte di speculare di Ombra. 

Impariamo quindi ad onorare la notte di Samhain nel suo reale significato del tagliare e lasciar andare tutto quello che non ci serve per la spontanea espressione del nostro Sé. Tagliamo i rami secchi della nostra vita e prepariamoci anche noi al “riposo” dell’autunno.

Fatta questa contestualizzazione e tenendo presente che è proprio il legame con la sfera del Sacro ciò che più d’ogni altra cosa definisce e caratterizza un mito, possiamo permetterci di dire che Don Giovanni, proprio per il suo rapporto con il Sacro, viene ad essere uno dei pochi miti moderni che la civiltà cristiana abbia mai costituito. Don Giovanni è un personaggio complesso che, pur presentandosi a tratti popolare, si presenta come un eroe estetico, sprezzante dell’Assoluto e della morte, massima esplosione vitale del godimento e della passione. Ciò che davvero ci permette di lui una lettura critica è appunto il suo rapporto con la morte. 

La vicenda è nota.

Che sia nella versione teatrale del 1630 di Tirso de Molina con El burlador de Sevilla y convidado de piedra , o nella rielaborazione di Molière del 1655 con Dom Juan ou Le festin de pierre o in quella di Carlo Goldoni che si accostò al personaggio di Don Giovanni nel 1736 con Don Giovanni Tenorio, o sia Il Dissoluto, o ancora nella celeberrima opera di Mozart (librettista Da Ponte) che scelse di mettere in scena le opere di questo personaggio secondo l’dea di un dramma giocoso, nel 1787, si tratta in ogni caso delle avventure del «giovane cavaliere estremamente licenzioso» (come recita la didascalia del libretto) alle prese con conquiste e serenate, macchinazioni e travestimenti che si concluderanno con la sua morte. 

L’opera si apre “in una città della Spagna” dove Leporello, servitore fedele, personaggio buffo e giocoso, fa da sentinella al suo padrone Don Giovanni , che è entrato in casa di Donna Anna per sedurla, travestito da fidanzato di lei, Don Ottavio. Donna Anna, accortasi dell’inganno urla; suo padre, il Commendatore, accorre e sfida Don Giovanni a duello ed è da questi ucciso. Don Giovanni fugge con Leporello e s’imbatte in Donna Elvira (una sua conquista precedente, ancora invaghita di lui e desiderosa di redimerlo). Riesce a defilarsi mentre Leporello tenta di consolarla dicendole che non sarà né la prima né l’ultima e le enumera minuziosamente tutte le donne sedotte dal suo padrone. Intanto Don Giovanni s’imbatte in un corteo nuziale e si invaghisce immediatamente della sposa Zerlina, che si lascia corteggiare dalle sue lusinghe e dalle sue promesse. «Là ci darem la mano, / Là mi dirai di sì» canta il libertino alla ragazza, rapita dal suo fascino, in uno dei duetti più famosi della storia dell’opera. Proprio quando Zerlina sta per cedere, arriva Donna Elvira che la mette in guardia. Arrivano anche Donna Anna e il suo fidanzato Don Ottavio che chiedono a Don Giovanni di aiutarli a cercare l’assassino del Commendatore. Intanto Donna Elvira continua a inveirgli contro ed egli imbarazzato si giustifica dandole della matta. Ma è proprio ascoltando il suono della sua voce che Donna Anna riconosce l’assassino del padre e lo comunica al fidanzato Don Ottavio. Masetto, lo sposo di Zerlina, è infuriato con questa, perché stava per cedere, ma Zerlina giura che non è successo niente. Don Giovanni organizza una festa in onore di Masetto e Zerlina e invita tutti. Don Ottavio, Donna Anna e Donna Elvira partecipano mascherati. Leporello distrae Masetto; Don Giovanni prende Zerlina in disparte e tenta di sedurla; lei grida e tutti accorrono. Il seduttore accusa Leporello, ma Don Ottavio, Donna Anna e Donna Elvira, gettate le maschere, lo accusano; egli però riesce a fuggire. Leporello è arrabbiato con il suo padrone, perché lo ha accusato ingiustamente; dichiara di volere andare via, ma Don Giovanni lo convince a restare e lo coinvolge in un’altra delle sue imprese amorose: chiede al suo servo di scambiare con lui gli abiti perché vuole conquistare la cameriera di Donna Elvira. Donna Elvira vede Leporello e lo scambia per il suo padrone, che intanto è sotto il balcone a cantare una serenata alla cameriera. Arriva Masetto con altri contadini: sta cercando Don Giovanni per ucciderlo. Questi ha indosso i vestiti di Leporello; riesce così a non farsi riconoscere; disarma Masetto e lo picchia; poi fugge. Passa di là Zerlina: vede il suo Masetto e corre da lui, che le dice che è stato Leporello a picchiarlo. Intanto Leporello, all’oscuro di quanto è appena accaduto, sta cercando di divincolarsi da Donna Elvira. Arrivano Don Ottavio, Donna Anna, Masetto e Zerlina che, scambiandolo per Don Giovanni, vogliono ucciderlo. Leporello rivela la sua vera identità: Don Ottavio lascia la compagnia per cercare Don Giovanni; Donna Elvira accusa Leporello di averla ingannata; Donna Anna di essere complice di Don Giovanni; Zerlina di aver picchiato il suo Masetto. Leporello fugge; Masetto chiarisce che a picchiarlo è stato Don Giovanni con indosso i vestiti di Leporello. Leporello e il suo padrone si rincontrano al cimitero e si rimettono ciascuno i propri abiti. Don Giovanni racconta a Leporello l’avventura capitatagli poc’anzi: una donna, scambiandolo per Leporello, lo ha abbracciato e baciato. Leporello è stizzito: probabilmente si trattava di sua moglie. Don Giovanni ride divertito. All’improvviso si sente una voce terribile: la statua del Commendatore ha parlato! Si trovano infatti vicino alla tomba del padre di Donna Anna ucciso da Don Giovanni. Leporello ha paura, mentre il libertino, per nulla intimorito, trova la cosa divertente e dice al servitore di invitare la statua a cena. Don Ottavio chiede a Donna Anna di sposarlo, lei gli risponde che accetterà solo dopo che la morte del padre sarà stata vendicata. Don Giovanni è a tavola e sta cenando. Arriva Donna Elvira e lo supplica di pentirsi di tutte le sue malefatte. Don Giovanni non ci pensa proprio e Donna Elvira va via amareggiata, ma poco dopo la si vede tornare indietro: sta scappando mentre urla spaventata. Leporello va alla porta e vede che c’è la statua del Commendatore. Spaventato, si nasconde sotto il tavolo, mentre Don Giovanni gli va incontro e gli stringe la mano. La statua del Commendatore gli chiede di pentirsi. All’ennesimo «no» in risposta all’ultima esortazione al pentimento, Don Giovanni, avvolto dalle fiamme dell’inferno, sprofonda con il suono dell’orchestra e del coro. L’ultima scena vede tutti i personaggi che concludono: «Questo è il fin di chi fa mal».

Vediamo di approfondire la psicologia di un personaggio come Don Giovanni,:

questo genio del travestimento e della sostituzione, amante del gioco prima che del possesso annuncia sin dalla prima scena quale sia la chiave di interpretazione attraverso la quale leggere tutta l’opera. E’ nella maschera, infatti, che si rivela l’essenza del don Giovanni. Egli si nasconde, si scambia, si confonde, cela la propria identità, ma subito si dichiara: un uomo senza nome; e nella seconda scena, al re che chiede chi vi sia nella stanza, don Giovanni risponde: E chi dovremmo essere? Un uomo con una donna. Sembra lapalissiano, ma dietro queste due dichiarazioni di anonimato si apre uno scenario abissale. Edonista, sprezzante, la sua colpa non sta nell’aver ingannato le donne, ma nell’essersi beffato della morte, di aver sfidato l’Assoluto, oltraggiando la morale, la religione e la cultura. Ciò di cui lui si fa beffe e cioè la morte viene, tradizionalmente, rappresentata dall’antagonista di don Giovanni: è la statua del commendatore morto. Il confronto drammatico e fatale infatti si gioca tutto su di loro e sui loro reciproci inviti a cena. La vicenda richiama un passo della Poetica di Aristotele in cui il filosofo accenna alla leggenda della statua di Miti che precipita contro il suo assassino, ma evoca anche tutta una tradizione pre-tirsiana di statue parlanti e moventi. Ora è dunque chiaro che il se il sacrilegio di don Giovanni non sta nel sedurre le donne, ma nell’irridere la morte o ancor peggio un morto che ritorna, così facendo, egli inficia il mistero stesso su cui si fonda la religione cristiana. E’ così che il tema del morto che ritorna diventa progressivamente quello del morto che uccide il suo assassino mediante un semplice invito a cena. 

In questo frangente poi il cibo e la sua condivisione vengono ad assumere un significato altamente simbolico che affonda le proprie origini nel mito di Demetra, Persefone e Ade e come abbiamo visto ritorna anche nella tradizione celtica della preparazione del cibo che lasciavano fuori dalla casa insieme a delle sedie per onorare gli antenati morti. 

Questo è un passaggio di fondamentale importanza. Il cibo con i morti non si condivide. Perché chi mangia dello stesso pane ne condivide la sostanza, avvia,  cioè un processo di “consustanzializzazione”.

Come Persefone, avendo mangiato nel mondo dei morti un cibo dei morti, resta indissolubilmente legata a quel mondo, così don Giovanni, avendo cenato col morto, cibandosi del cibo dei morti, viene risucchiato dalla morte verso la condanna estrema.

Ecco perché nelle più svariate versioni del mito dongiovannesco non possono mancare le dinamiche che raffrontano il trasgressore al morto, l’invito a cena e la condivisione del cibo. Ed è su questo punto che si possono inferire le significati di assoluta evidenza. Se ritroviamo, seguendo le tracce rituali e sacrali a cui si accennava sopra, il significato intrinsecamente simbolico che può essere attribuito al fatto di condividere un banchetto, non possiamo non riconoscere che Don Giovanni, anche qui, si pone in netta antitesi con tutti quegli elementi che servono a costruire nella società il senso di identità e di appartenenza. Scrive Macchia:

Non si può intendere la ragione di quest’invito se si ignora il valore simbolico, religioso, solenne, addirittura escatologico dato al rito della cena nelle religioni e nelle culture più diverse, da quella pagana a quella cristiana. Nel convito fraterno o tra amici gli animi si aprono e affrontano i problemi più ardui, nelle pacate conversazioni: dalla cena pasquale ebraica all’Ultima Cena, da Platone a Lutero, dalla cena di Cipriano a quella di Giordana Bruno. […] Don Giovani non obbedisce a quel rito, ignora il senso alto e solenne di quella cerimonia[1].

Don Giovanni dunque non solo irride la religione e la divinità facendosi beffe della morte, ma anche viene meno a quel legame indissolubile che si crea attraverso la condivisione del pasto. Irride e dissacra la profondità di questa relazione; ciò nonostante questa permane ed il morto si lega al vivo in maniera irreversibile. L’elemento simbolico attraverso cui viene sancita questa compenetrazione è il cibo. Il cibo penetra in profondità, nelle viscere, alimenta il corpo, è ciò che dall’esterno passa all’interno; mangiare lo stesso cibo, significa, fuor di metafora, subire le stesse trasformazioni chimiche, gli stessi procedimenti di assimilazione e quindi assomigliarsi tanto all’esterno quanto all’interno. Il cibo è dunque ciò che rende il morto uguale al vivo (primo invito) o meglio, nell’ottica del secondo invito a cena (quello cioè del morto che invita il vivo), è ciò che fa del vivo un morto.

Pensiamo a tutta la tradizione italiana sulla condivisione del pane, il pan dei morti e del cibo:

In Calabria, nelle comunità italo-albanesi, ci si avviava in corteo verso i cimiteri: dopo benedizioni e preghiere per entrare in contatto con i defunti, si approntavano banchetti direttamente sulle tombe, invitando anche i visitatori a partecipare.

In Emilia Romagna nei tempi passati, i poveri andavano di casa in casa a chiedere “la carità di murt”, ricevendo cibo dalle persone da cui bussavano.

In Friuli i contadini lasciano un lume acceso, un secchio d’acqua e un po’ di pane sul desco. Sempre in Friuli, come del resto nelle vallate delle Alpi lombarde, si crede che i morti vadano in pellegrinaggio a certi santuari, a certe chiese lontane dall’abitato, e chi vi fosse entrato in quella notte le avrebbe trovate affollate da una moltitudine di gente che non vive più e che scomparirà al canto del gallo o al levar della “bella stella”.

A Bormio (Lombardia), la notte del 2 novembre si era soliti mettere sul davanzale una zucca riempita di vino e, in alcune case, si imbandisce la cena. Nel Vigevanasco (Vigevano) e in Lomellina c’era l’abitudine di lasciare in cucina un secchio d’acqua fresca, una zucca piena di vino e, sotto il camino il fuoco acceso e le sedie attorno al focolare.

In Piemonte, si soleva per cena lasciare un posto in più a tavola, riservato ai defunti che sarebbero tornati in visita.

In Val d’Ossola sembra esserci una particolarità in tal senso: dopo la cena, tutte le famiglie si recavano insieme al cimitero, lasciando le case vuote in modo che i morti potessero andare lì a ristorarsi in pace. Il ritorno alle case era poi annunciato dal suono delle campane, perché i defunti potessero ritirarsi senza fastidio.

In Puglia la sera precedente il due novembre, si usa ancora imbandire la tavola per la cena, con tutti gli accessori, pane acqua e vino, apposta per i morti, che si crede tornino a visitare i parenti, approfittando del banchetto e fermandosi almeno sino a natale o alla befana.

Sempre in Puglia, ad Orsara in particolare, la festa veniva (e viene ancora chiamata) Fuuc acost e coinvolge tutto il paese. Si decorano le zucche chiamate Cocce priatorje, si accendono falò di rami di ginestre agli incroci e nelle piazze e si cucina sulle loro braci;  gli avanzi vengono riservati ai morti, lasciandoli disposti agli angoli delle strade. Diffusa è anche l’usanza della questua fatta da schiere di ragazzi o di contadini e artigiani che vanno di casa in casa cantando un’appropriata canzone. Questa costumanza in Puglia si chiama senz’altro cercare “l’aneme de muerte” )

La vicenda di Don Giovanni non è suo appannaggio esclusivo, ma sfiora la sorte di tutti, indistintamente. Il fatto di rendersi anonimi di fronte agli altri comporta almeno tre importanti conseguenze: in primo luogo nell’anonimato vige un senso di de-responsabilizzazione, di licenziosità e connivenza con l’illecito che, com’è noto, Don Giovanni esperisce abbondantemente; secondariamente implica un totale annullamento di sé e una conseguente lontananza dalle convenzioni e dalle usanze e tradizioni a cui il proprio nome è legato tramite i vincoli parentali, familiari e sociali; distaccarsi da esse significa scegliere di non aderirvi. Infine la scelta di non nominarsi è assolutamente coerente con la tipologia di uomo e di carattere rappresentato. Don Giovanni è energia pura, vita estrema, gioia, don Giovanni danza sugli abissi, direbbe Nietzsche; un uomo così sarebbe, com’è naturale, senza quell’identità specifica che scaturisce come prodotto dell’integrazione fra intelletto e ragione: sarebbe esclusivamente una forza creatrice e distruttrice, una potenza dionisiaca che è ebbrezza e godimento. Costui non deve avere un nome, non può essere impietrato come l’occhio della Gorgone. Egli è mobilità estrema, fuggevolezza e tutta la sua potenza è espressa dall’anonimato e dalla pura forza di vita di cui sin dalla primissima scena incarna il simbolo.

Tamara Blanco Vannucci

[1] G. Macchia, Tra Don Giovanni e Don Rodrigo, Adelphi, Milano 1989, p. 174.

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