Percorsi antropologici e documentazione storiografica dimostrano che non vi siano società all’interno delle quali sia del tutto assente una qualunque forma, per quanto embrionale, di religiosità. Vi sono di essa caratteristiche univoche come l’ubiquità, la persistenza nel tempo e il fatto che si manifesti come un fenomeno comune a tutte le civiltà; questo induce alcuni antropologi a circoscrivere il fenomeno religioso all’interno della sfera biologica. La tesi di Walter Burkert abbraccia proprio questa prospettiva e, tramite essa, ripercorre le fondamenta delle antiche civiltà mediterranee e medio-orientali. La religione è per Burkert qualcosa di non-evidente, eppure di profondamente comunicativo. Di fatto essa è comunicazione con ciò che è invisibile e ineffabile e per questa ragione è assolutamente necessaria. In particolare è un sistema simbolico che tiene conto dell’evoluzione umana all’interno del più grande processo di evoluzione della vita. Studiare la religione secondo uno schema socio-culturale di carattere genetico, biologico ed evolutivo vuol dire approfondirne quegli aspetti che ne rivelano il suo potere comunicativo associandolo a tutti quegli stati pre-verbali che in essa si manifestano attraverso il rituale, la serietà ossessiva e la ripetizione. Si pensi per esempio al fatto che se nell’uomo di Neanderthal è accertata la presenza di riti funebri, non è attestata nel medesimo la facoltà di parlare; e se alcune forme di apprendimento sono legate alla ripetizione, atto fondamentale nell’esercizio del rituale, ve ne sono di contro altre fortemente legate alla emotività e in particolare a quelle situazioni di grande pregnanza emotiva, come l’ansia e la paura. Queste hanno la chiara funzione di proteggere la vita perché sono connesse alla paura della morte ma spesso si evocano a convalida di alcuni messaggi religiosi. Esse cioè sono intrinsecamente connesse all’esperienza del sacro a cui, frequentemente, si associano brividi di terrore (Primis in orbe fecit terror).
Ecco come di fronte alla minaccia della vita, la religione debba poi scatenare un meccanismo difensivo, ossia un rito sacrificale. La religione, per controllare l’ansia, esige che in sacrificio le venga dedicato un oggetto prezioso, ossia quella pars pro toto, simbolo di una perdita. Viene in mente per esempio il taglio del dito, che, in condizioni di malattia o pericolo, è stato praticato approssimativamente ovunque. Nel mondo animale lo stesso accade attraverso la parziale mutilazione che sta a indicare il compromesso col quale l’animale accetta una piccola perdita per salvare però l’intero. La parte sacrificata è sempre la parte più debole e può corrispondere, ad esempio, nel tessuto sociale umano, al capro espiatorio.
W. Golding in The lord of fire esprime molto chiaramente questo fenomeno. Nella descrizione romanzata delle dinamiche che si alternano nell’esercizio del potere e della violenza, Golding coglie alcuni tratti fondamentali per la costituzione di una collettività. La storia è nota; è la storia di un gruppo di bambini che, in seguito ad un incidente aereo, si trova su un’isola deserta, illesi, ma senza adulti. Nasce sull’isola una comunità infantile. Come scrive Alfieri
L’isola è meravigliosa, è ricca di cibo e di acqua, non ci sono pericoli, non ci sono nemici, e dai ragazzi non ci si aspetterebbero comportamenti brutali e distruttivi. Eppure anche in questo contesto apparentemente idilliaco sorge un conflitto di potere e, questo conflitto, insieme all’angoscia della solitudine e dell’abbandono, determina un crescente stato di tensione e di minaccia che ad un certo punto trova espressione simbolica e quasi una materializzazione nell’immagine della Bestia, un mostro che i ragazzi credono di vedere. Indifesi di fronte alla Bestia, cioè di fronte alla loro stessa insospettata carica di violenza, i ragazzi si trasformano in una tribù selvaggia di assassini. Avvengono omicidi rituali, si sfiora il cannibalismo(*).
La parte più interessante è quella dedicata al ciclo persecutorio che prevede la costituzione della vittima e alle sue conseguenze. La violenza, si capisce, deve essere incanalata in una direzione precisa affinché la comunità intera se ne possa liberare. La vittima è sempre l’egregio, colui che, per eccesso o per difetto, emerge dal gruppo. A volte, come spiega R. Girard, proprio per la sua diversità, oltre ad emarginati, schiavi, fanciulli, prigionieri, c’è il re. E se c’è una contaminazione, un miasma, questo va eliminato, anche sacrificando il re. Ma la vittima, nel ciclo della violenza, ha una duplice funzione: essa, oltre ad essere vittima, è anche dono sacrificale, sacrificio stesso. Quindi è violenza agita e violenza subita ed è, come scrive Alfieri, “raddoppiamento simbolico, la sua esteriorizzazione e proiezione”.
I ragazzi non potendo riconoscersi mostruosi, a causa di quella paura e quell’angoscia che possono placarsi solo col sangue, creano un mostro, la Bestia, che deve stare al di fuori di loro stessi. In questo modo la violenza diventa sacra, viene ritualizzata e si trasforma in sacrificio. E’ questa la dinamica attraverso la quale si crea l’esperienza religiosa primordiale. All’inizio la violenza non viene nascosta, come invece accade nella società moderna; al contrario essa si sacralizza, attraverso un necessario atto di terrore. In un gruppo in cui il rapporto tra individui è giocato sulla competizione e la rivalità, in cui cioè c’è indifferenziazione tra essi e disordine, al suo interno si generano inevitabilmente ansia e paura. Da qui sono possibili solo due reazioni: o la disgregazione del gruppo, oppure la sua unione in vista di un comune obiettivo da contrastare e contro il quale dunque sfogare la violenza interna al gruppo. Ed è proprio questo infatti, spiega Alfieri, ciò che incarna la Bestia nel romanzo di Golding; e non è diverso da quello che la vittima sacrificale rappresenta nelle comunità religiose primitive: sulla vittima si scarica la violenza del gruppo, ma essa stessa è anche l’essere sacro in nome del quale la violenza si placa e tace. E come Alfieri, anche Girard invoca il mito delle Baccanti e si richiama alla sua violenza come garanzia di sopravvivenza per la comunità; dal momento che i cittadini, apparsi furibondi e invasati, non sono in grado di riconoscersi in quella atroce espressione, la interpretano come una visitazione divina paga della sua ultima vittima e in cui verosimilmente la divinità stessa si è incarnata, “propizia nel suo allontanamento, quanto terribile nella sua presenza”.
* L. Alfieri, “Il fuoco e la bestia”, commento filosofico-politico al Signore delle Mosche di Golding, inLa contesa tra fratelli, a cura di G. Chiodi, Giappichelli, Torino 1993.